Secondo molte tradizioni, che guardano alla storia dell’umanità come un movimento evolutivo, il periodo che stiamo attraversando rappresenta il passaggio ad una nuova fase. Un quarto passo lungo la Scala dell’evoluzione della coscienza che nello sviluppo dell’Umanità è associato a una società radicata nell’intelligenza del cuore, compassionevole e inclusiva.
È qualcosa di cui possiamo trovare tracce evidenti nel grande movimento di iniziative globali a tutela dei diritti di tuttƏ, del Pianeta, nella cura di relazioni autentiche…
La compassione è al centro di questa quarta onda di espansione della nostra coscienza il cui centro energetico è il cuore. “Compassione” è una parola molto usata oggi, con cui subito ci confrontiamo quando intraprendiamo un percorso di autoscoperta di noi stessƏ.
Nella pratica della mindfulness sviluppiamo un atteggiamento amorevole e gentile, non giudicante verso noi stessƏ; tutto ciò che intraprendiamo per facilitare il cambiamento, lo facciamo creando sentimenti di calore e sostegno dentro noi stessƏ. Questo calore, tolleranza e comprensione sono compassione.
Potremmo definire la compassione come una qualità dell’essere che si converte in amore verso se stessƏ e verso gli altri. La compassione ci spinge a fare qualcosa per contribuire alla felicità degli altri. Questo è il vero impulso, l’energia e il potere invisibile che apre la porta a stati di maggiore tranquillità, ampiezza e profondità di coscienza; quella coscienza che trascende l’ego per raggiungere uno stato transpersonale, dal quale stabilire un’autentica empatia, da cuore a cuore.
Eppure ancora oggi, forse proprio perché ci troviamo in una fase di passaggio, di transizione, ci sono molte incomprensioni su che cosa sia la compassione. Spesso c’è una visione edulcorata, melensa, della compassione che inconsapevolmente la associa a un atteggiamento passivo. Diventa così sinonimo di provare pena. La gentilezza viene interpretata come “ingollare”.
Eppure, se guardiamo alla sua radice etimologica (dal latino cum patior – soffro con – e dal greco συμπἀθεια , sym patheia – “simpatia”, provare emozioni con) possiamo vederla come un sentimento attivo, di partecipazione. Sentiamo l’emozione dell’altro, la sofferenza, come ci indica la radice latina e nel percepire questo emerge un movimento, quello di fare qualcosa per alleviarla.
Questa idea è alla base anche della tradizione buddista da cui la mindfulness deriva: promuovere la minor sofferenza per tuttƏ.
Se possiamo comprendere con più facilità come percorrere il cammino dell’auto compassione, della compassione verso noi stessƏ, partendo dalla contemplazione, osservazione, meditazione che la mindfulness ci suggerisce, applicare la compassione nella relazione con gli altri, nel nostro atteggiamento “ad occhi aperti”, può mostrare importanti ostacoli e fraintendimenti.
Ogni situazione, ogni momento, ha la sua chiave. Ci saranno occasioni per manifestare una compassione morbida, che conforta, accoglie, ascolta, e altri in cui è necessario praticare una compassione “dura”.
La compassione applicata non è passività. Se ci fermiamo ad osservare bene, possiamo renderci conto di aver già sperimentato più volte nella nostra vita questa “dura compassione”. È quella che ad esempio mettiamo in atto come genitori con i nostri figli quando è necessario porre un limite. Non porlo non sarebbe un atto di amore, indebolirebbe invece di rafforzare, non promuoverebbe il suo benessere a lungo termine, anche se sul momento può non far piacere a nostro/a figlio/a.
Nelle relazioni quotidiane questo significa agire di fronte, ad esempio, a una manifestazione di violenza, a un sopruso, a un’evidente ingiustizia. L’agire di questa compassione implica semplicemente parlare; non reagire, che è cosa ben diversa e di cui possiamo renderci chiaramente conto, se ci ascoltiamo profondamente. Ciò che ci muove è diverso: di nuovo, promuovere meno sofferenza per tutti.
Per comprendere questo è necessario ampliare lo sguardo, non limitarci ad osservare l’interazione tra le sole parti evidenti in gioco. Quando parliamo con compassione possiamo creare varchi di comprensione nell’altro che hanno anche effetti oltre. Se un nostro amico fa un commento sessista, non far finta di niente, parlare e magare aprire un dialogo può creare spazi di cambiamento e questo si riverbererà al di là di te e lui.
Qualche giorno fa ero nella sala d’aspetto del mio medico. C’erano molte persone, anche in coda, fuori, lungo il corridoio. Essendo quasi il mio turno, ero appena stata invitata a sedermi in uno dei pochi posti presenti a causa del distanziamento imposto dai protocolli anti covid. Dietro le scrivanie le segretarie tra telefoni squillanti e persone da indirizzare nei vari studi. Entra una signora sulla settantina con un foglio in mano e si avvicina al banco di accettazione. L’avevo vista uscire qualche decina di minuti prima; una delle segretarie le aveva indicato di ritornare a consegnare qualcosa dopo essere passata dalla farmacia. Prima che la signora apra bocca, d’improvviso, l’altra segretaria balza in piedi, esce da dietro la scrivania e le si para di fronte urlandole in faccia con incredibile veemenza. Ho appena il tempo di osservare, di rendermi conto di quanto la reazione sia sproporzionata e che dietro ci sia una frustrazione che va ben oltre la signora, che la segretaria imbocca il corridoio. Ma poi torna indietro, è ancora più aggressiva, inizia a insultarla, usa parole terribili. Sento i miei piedi ben radicati a terra e parlo. Dico “basta”, che la smetta di offenderla e mortificarla. La segretaria mi viene in contro, sono seduta, mi sovrasta con il dito puntato urlando che devo stare zitta, che non devo neanche provare a intervenire, che non devo osare dire niente o offenderla. Ma io non l’ho fatto e non lo farei mai, le dico. Mi sento serena, dentro, anche se noto che il cuore per qualche secondo batte più forte prima di tornare al normale pulsare. Parlo con calma – quando ho detto “basta” ho alzato la voce, sì, con fermezza – le dico che comprendo che non è facile lavorare bene in questo periodo, che dev’essere difficile gestire tutto. Non sembra riuscire ad ascoltare. Respiro. Continuo dicendo, mentre ogni tanto mi parla sopra, che sono intervenuta perché stava aggredendo una persona e usando parole offensive, che non potevo ignorare questo comportamento… Scappa di nuovo. Dopo aver preso il foglio della signora, che esce subito veloce dallo studio, l’altra segretaria si rivolge a me, inizia a raccontarmi della loro quotidianità da quando c’è il covid. Ascolto. Torna al suo posto anche l’altra, ascolta, si sfoga ma con altri toni; c’è modo da parte mia di spiegare meglio come mi sono sentita di fronte a quell’aggressione; parliamo di tante cose pacificamente, accolgo le sue sensazioni, le comprendo, riconosco apertamente il valore di ciò che sente e le sue difficoltà. Non chiede scusa, ma ho la sensazione che qualcosa in lei si faccia lentamente spazio. Intorno le altre persone sono rimaste in silenzio, nessuno ha detto niente, neanche la signora aggredita, ma ci sono, hanno visto, hanno sentito.
La compassione dura è assertiva, ferma, interviene, alza la voce, anche. Si attiva di fronte a atteggiamenti dannosi. Palesa con le parole il disaccordo senza mettere in discussione la persona, anzi trasmettendole apprezzamento e comprensione. Ma non fa finta di niente.
Per praticarla, come sempre, è necessario prima aver sperimentato la compassione verso noi stessƏ. Perché non si può offrire all’altro ciò che non abbiamo dato a noi. E rimanere radicati, presenti, per non scivolare nella reattività e nel giudizio. La compassione è un’àncora nella tempesta che ci mantiene nell’accoglienza e che guida i nostri gesti e le nostre parole.